# 1 – New Comic Book Day

da ”DareDevil: Born Again” di Miller & Mazuchelli

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La Danza Della Pioggia – #1: New Comic Book Day (Leggi Online)

#1

– San Infantino. 2019-

Don Antonio entrò in chiesa con la sua nuova pila di fumetti sotto il braccio, felice di iniziare un altro mercoledì senza peccati da confessare. 

San Infantino faceva il suo bel lavoro per mantenere la purezza del suo centinaio scarso di anime che la abitava: pesche di beneficenza, raccolte fondi per risistemare il campetto da calcio della parrocchia e i turni alternati per l’insegnamento del catechismo ai bambini erano abbastanza per evitare per assicurarsi un posto in paradiso ed espiare ogni peccato. 

Quella minuscola frazione dell’Emilia Romagna poteva contare su una comunità di persone cortesi, solidali e sempre disponibili nel supportarsi l’un l’altro, come Bianca la cartolaia, che ogni mercoledì teneva da parte i fumetti invenduti così che Don Antonio potesse alimentare la sua ‘’nuova curiosità’’. 

Don Antonio era un vecchietto dal viso docile e un sorriso congelato tra le guance pallide e molli, ma con una certa gioventù che brillava negli occhi sempre stretti, come intento a scrutare l’orizzonte. La sua ‘’nuova curiosità’’ era nata un mercoledì  di un paio d’anni prima, quando notò vicino al bancone della cartolaia una pila di fumetti che sembravano essere sfuggiti alla voracità di Marzio e decise di comprarli tutti in un colpo solo.

«Studio il mio paziente, ecco cosa faccio» le disse una volta, rispondendo alle curiosità di Bianca e porgendole un paio di banconote spiegazzate.

«Perde tempo con quello» disse lei con la testa china, stirando le banconote con il polso. 

«E con chi dovrei perderlo? State tutti bene qua» le rispose, con la sua solita risata che esplose come se l’avesse trattenuta per tutta la giornata. «Il tempo da perdere è tutto quello che mi resta.»

E all’inizio era vero: era solo un prete che aveva deciso di dare un senso alla sua vocazione prendendo sul personale una causa già data per persa. Si era imposto di decifrare la mente del suo malato, dare una sbirciata nel suo mondo e immedesimarsi per trovare quell’incrinatura nella parete che distorceva lo separava dal resto del mondo e dalla vita come tutti la conoscevano. Ma poi, accadde quello che accade a tutti quelli che leggono un fumetto ‘’per provare’’: si perse tra chine e colori, senza trovare più una via d’uscita.

Quella che si era presentata come una scoperta piacevole aveva cominciato pian piano a portare con sé una serie di risentimenti e rimpianti tardivi che, alla sua età, il prete non sentiva di poter sopportare. 

Quelle storie nuove e fresche, che fino alla loro scoperta dava per scontato, gli procuravano la stessa forma di consolazione che fino a tempo prima pensava di trovare unicamente nelle Sacre Scritture.

Nei suoi nuovi mercoledì, Don Antonio leggeva di uomini e donne, alieni e divinità che affrontavano entità inimmaginabili che minacciavano le fondamenta della realtà stessa; ma queste minacce apparivano anche meno complesse dei conflitti interiori che si portano dietro numero dopo numero, anno dopo anno e che diventano la ragione prima della loro esistenza su carta.

Arrivato alla fine della navata, Antonio scostò le tendine viola del confessionale, la sua nuova sala lettura, e si sedette. Per quel vecchio uomo di chiesa, leggere nel confessionale era l’equivalente adulto di leggere sotto le coperte con la torcia prima di andare a dormire. Isolato dal mondo, al sicuro da anime più o meno pure che potessero irrompere nel suo fortino. Appoggiò la pila sulle ginocchia e cominciò ad esaminare gli albi uno ad uno. La cartolaia faceva quello che poteva, ma ignorava il fatto che certe serie richiedessero un ordine di lettura preciso, rigido e religioso, così da non perdere la continuità con gli eventi. Così, Don Antonio si ritrovava un ‘’Devil & Hulk’’ n. 250 e subito dopo un ‘’Devil & Hulk’’ n. 253. Un Lanterna Verde n. 45, seguito da un Lanterna n. 48. 

Illuminato dalla patina viola della tendina attraversata dal sole, il sorriso gentile di Don Antonio si spense, amareggiato all’idea di essere costretto a leggere i riassunti all’inizio dell’albo per poter ricostruire scene e vignette raffiguranti momenti topici, forse indimenticabili, con la sua immaginazione ancora così limitata in materia. 

Sospirando, Il prete aprì il primo albo, quando un sussurro cavernoso strisciò attraverso le pareti di legno.

«Padre…»

Don Antonio lanciò un urlo e i fumetti caddero a terra, spargendosi ai suoi piedi. Riconosceva quel respiro, quello  lento e sofferto di un petto sepolto sotto un tronco. 

Il prete allungò una mano pallida e tremante verso la parete, afferrò il piccolo pomello e fece strisciare finestrella del confessionale con un colpo secco. 

Marzio lo stava già fissando attraverso i forellini della grata come un cane abbattuto in attesa del suo padrone. La testa grande, dalle mascelle rigide come scolpite nel cemento, occupava quasi tutto il piccolo spazio rettangolare della finestrella. I capelli bianchi e folti, quasi tendenti al platino, erano accuratamente pettinati all’indietro con la brillantina. Indossava la solita maglietta scolorita delle Lanterne Verdi e i pantaloni da lavoro blu di suo padre, ancora sporchi di calce risalente a decenni e decenni di lavoro in cantiere. Le mani, abbastanza grandi e coprire una testa intera senza il minimo sforzo, erano nascoste, strette tra le ginocchia. Con le spalle larghe che si ritrovava, a malapena gli riusciva di stare all’interno della cabina senza doversi piegare in maniera buffa e ridicola per un uomo della sua stazza. Tremava e a malapena riusciva a trattenere i piccoli, rapidi singhiozzi che, incatenati uno fila all’altro, cominciavano a prendere il ritmo di una preghiera. 

«Mi perdoni, non volevo entrare come un ladro» disse, inforcando gli occhiali da sole. 

«I ladri sono benvenuti qui» disse il prete, ricomponendosi e lisciandosi la pelata pallida e lucida. 

«Ha paura, Sono io, vede?» Marzio abbassò gli occhiali da sole. Alla vista dei suoi occhi castani e impauriti, il prete si rilassò, sciogliendosi contro la parete del confessionale. 

«Non sono spaventato. Sono… sono sorpreso», rispose. «Non ti vedo qui da tanto, tanto tempo.» 

«Non pensavo di tornare. A dire il vero, non pensavo di dover tornare mai più.»

«E cosa è cambiato, adesso?» chiese il prete, levandosi infastidito un albo dalla coscia come fosse una briciola di pane, ostentando finta tranquillità. 

«Niente. Sembra che non sia cambiato niente di niente. Quando se n’era andata, mi sembrava di aver fatto solo un lungo sogno. Ma è rimasta. Non se n’è mai andata davvero. Aspettava e basta. Questa è la verità.» 

Ogni cosa sembrava dimostrare che a parlargli fosse davvero Marzio e non… qualcos’altro: ogni sua parola strisciava indecisa e stentata dalla bocca, intervallata da brevi tremori e silenzi sofferti. Non faceva mai troppo caso a quali parole usare e a dove sarebbero andate a parare, come se avesse sempre troppa fretta per preoccuparsene davvero e qualcosa gli alitasse sul collo, facendosi sempre più vicina, pronto ad attaccarlo. 

Marzio tornò in silenzio. Si portò un pollice alle labbra, cercando di placarne il tremore. Il prete indugiò e, impaziente, chiese:

«Hai qualcosa da confessarmi, Marzio?»

«Sì.» 

Dopo un altro silenzio, si alzò dalla panca e tirò fuori una cartelletta. Fece uscire un braccio dal cabinotto e bussò contro la tendina con una cartelletta. Antonio prese il fascicolo e si mise a sfogliarlo. All’interno trovò una serie di documenti e moduli che Antonio scartò subito per arrivare alle lastre mediche che stavano in fondo. Ne prese una e l’alzò per osservala controluce. 

Ogni sezione dello sterno di Marzio, grande e ampio come quello di un cavernicolo, non era altro che un mosaico di ossa spezzate. Si potevano distinguere chiaramente la ragnatela di fratture che percorrevano le clavicole e le costole, raccolte nel buio fosforescente della radiografia come una serie di diapositive dell’infanzia. Ma quello che catturò immediatamente la sua attenzione erano le macchie bianche simili a fumo di sigaretta che invadevano i polmoni. 

«Li vede quei ‘’fantasmi’’? È un cancro. Il mio cancro» rispose, mettendo uno strano accento affettuoso su ‘’mio’’.

Il prete fece calare il braccio e ritornò con la schiena contro il pannello, abbattuto.

«Il dottore mi ha chiesto se fumavo e gli ho detto di no» continuò Marzio, suonando come per avere qualcosa di cui giustificarsi. «Mangio solo quello che coltivo o la carne del macellaio. Bevo tanta acqua e faccio esercizio. Niente alcol. Niente schifezze. Massimo i succhi di frutta, ma quelli non fanno venire il cancro. Il dottore dice che a volte capita e basta. Dice che a volte si ha solo sfortuna… » Marzio si fermò e scosse la testa, sorridendo. «Come quando vieni colpito da un fulmine.»

«E cosa ti dice che è stato il fulmine?» chiese il prete.

«Un fumatore non si chiede perché ha un cancro, no?» rispose Marzio, piegando e scuotendo la testa per la confusione. «E nemmeno io mi faccio troppe domande.»

«E adesso che vuoi fare? Hai bisogno di aiuto? Soldi …?»

«A me va bene morire, padre» rispose Marzio, scuotendo la testa, deciso. «Mi va bene. Se muoio io, ‘’lei’’ muore con me. Non so farlo… da solo. La sfortuna almeno mi dà una mano.»

«Non le dire queste cose, non qui dentro» disse il prete, sorprendendosi a sentirsi gli occhi bruciare di lacrime. «Si può fare una raccolta fondi…»

Marzio ridacchiò. 

«Qui pagherebbero per farmelo venire il cancro.»

Antonio si lasciò andare a un sospiro di sconforto. I due rimasero in silenzio, condividendo lo scricchiolio del legno del confessionale. 

«Cosa c’entra con lei, Marzio?» chiese poi il prete, di getto. «Cosa c’entra il cancro con la tua Voce?».

Marzio sospirò. 

 «Le ha dato il via. Ha fatto partire l’orologio.»

Antonio trattenne il respiro e si girò lentamente verso la grata, badando a non farsi scoprire. Si sollevò appena dalla panca a guardargli le mani e si bloccò a metà. Le nocche di Marzio, graffiate e ancora fresche di sangue, tremavano incontrollate sopra le ginocchia. 

«Non ho fatto niente» disse Marzio, tenendo lo sguardo basso. Antonio tornò a sedersi in fretta, come un bambino beccato a copiare un compito. 

«Ho passato la notte a picchiare il muro, a cercare di resistere e cacciarla via» continuò Marzio. «Ma sono stanco. Troppo stanco. Non riesco più a fare come mi ha detto di fare quando torna. Respirare e chiudere gli occhi non basta più.»

Antonio si accorse di essere rimasto in apnea per tutto il discorso di Marzio. Si ritrovò seduto in posizione rigida contro la parete, con le mani saldamente aggrappate ai margini della panca e un piede in avanti, pronto a scattare. 

«Volevo chiederle… sono venuto qui per…» Marzio sospirò, esausto. «Chiamerà la polizia, se succede qualcosa?» 

«Posso, sì…» Il prete mosse la testa in uno stanco segno di assenso. «Ma devi anche dirmi perché la devo chiamarla.» 

«Io non lo so se succederà» disse Marzio, cercando di trattenere i singhiozzi. «Ma dice che adesso può succedere. Tutte le stelle sono allineate.»

Un profondo silenzio li divise, portandoli alla deriva, uno lontano dall’altro. 

«Pichelli viene in città» riprese Marzio. «Ha fatto un libro nuovo. Un’altra storia, non la nostra. Di noi non gli importa più» si girò verso la grata, alla ricerca dello sguardo del prete. «E lei vuole fare qualcosa, prima di morire con me.»

«Marzio» il prete si sporse verso la finestrella, boccheggiando, senza davvero sapere che cosa dire. «Ascoltami» s’interruppe, soppesando e valutando quello che stava per proporgli. Scosse la testa, scrollandosi la paura di dosso e continuò e disse, implorandolo: «Nessuno dice che devi affrontare tutto questo da solo. Lo so cosa dicono quelli del paese, ma io non sono San Infantino. Possiamo fare come quando tu eri ragazzino e io avevo più capelli» il prete provò a tirare fuori un sorriso da Marzio, senza successo. «Puoi dormire sul divano. Puoi darmi una mano in chiesa. Possiamo controllare La Voce insieme, come abbiamo già fatto.»

Marzio scosse la testa. Il sorriso del prete si spense, riducendogli il viso a una maschera vuota, invecchiata di una decina di anni in pochi attimi. 

«Ci ho pensato ma, per la prima volta, io, la Voce e Il Santo vogliamo la stessa cosa» Le labbra di Marzio si torsero per gli spasmi, come colpite da una specie di ictus. Cercò di sistemarsi gli occhiali e, per un breve attimo, Antonio si paralizzò alla rapida vista dei nuovi occhi di Marzio, adesso di un azzurro gelido e intenso. Il prete strisciò lungo panca, lontano dalla parete, fino a stringersi contro un angolo. 

«Sono venuto qui solo per dirle… per ricordarle… che quello che succederà quando arriverà la Danza della Pioggia… » disse Marzio, cercando di far uscire le parole chiare e semplici in mezzo agli spasmi. «Non è colpa sua. Lei ha fatto quello che poteva.» 

«Marzio…»

Il confessionale prese a tremare e scuotersi. 

«Devo… andare…» Marzio saltò via dal cabinotto e corse via attraverso la navata. 

Antonio scostò la tendina, pronto a saltare giù e fermarlo, ma si immobilizzò. A metà della sua corsa, dopo aver urtato un paio di panche, Marzio rallentò e, senza fermarsi, cambiò postura, assumendo un’andatura lenta, determinata, quasi a passo di marcia. 

Paralizzato, il prete lo guardò allontanarsi dal confessionale come se nulla fosse successo, con le braccia ordinatamente piegate dietro la schiena e la testa alzata per ammirare le vetrate e i rilievi della chiesa, come se vi ci fosse trovato dentro per la prima volta. 

Marzio spalancò il portone con un gesto secco e sicuro e sparì, lasciando il prete a guardarlo mentre le sua ombra veniva inghiottita dalla pallida luce estiva. 

Il portone si chiuse alle sue spalle e il vento gli soffiò sul viso un’aria profumo dolciastro di fiori, come per dargli il bentornato nel mondo fuori dalla grazia di Dio; lontano dall’odore austero del legno, del cemento umido e dell’incenso dolciastro mescolato a quello della carta invecchiata di Bibbie ed opuscoli. Rimase ritto sulla soglia, in cima alla bassa scalinata di cemento con gli occhi persi sulle macchine che invadevano lo spazio circostante, incastrate alla bell’e meglio tra i tronchi degli alberi e intorno alle panchine di legno come una discarica ai confini del mondo. 

Marzio strinse i pugni, assaporando le minuscole fitte di dolore che partivano dalle nocche scarnificate. Alzò la testa e gonfiò il petto, come per preparasi a gridare al cielo. Poi, come colpito alle spalle, si piegò in due a tossire nelle mani chiuse a coppa davanti alla bocca. Tossì almeno per un minuto e, quando ebbe finito, rimase a fissare impotente il sangue che gli sporcava i palmi.

Si guardò intorno, spaesato. Non sapeva come fosse finito lì. Fino a un secondo prima, ricordava di essere ancora nel confessionale della chiesa con Don Antonio. Abbassò di nuovo gli occhi sulle mani insanguinate. 

Alla fine, quelli a sanguinare qua siamo solo io e te, Marzio… gli disse La Voce.

«Che cazzo sta facendo?» sussurrò una voce in lontananza che Marzio confuse in mezzo agli altri disturbi e squarci sonori che gli riempivano le orecchie. 

«Oh, coglione!» urlò un’altra voce, una specie di squittio che doveva fare ancora tanto per uscire dall’età puberale. 

Marzio alzò il viso. Trovò due ragazzini, alti e secchi che lo fissavano a bocca aperta, immobili ai margini del parcheggino della chiesa. Aspettavano una reazione del ‘’pazzo’’, con le mani strette intorno alle spalline degli zaini. Le ginocchia ossute erano piegate in avanti, pronte a scattare via in caso di emergenza, ma non fu necessario. Marzio si limitò a fissarli confuso, come trovandosi di fronte a una specie di allucinazione. 

Uno dei due ragazzi, quello moro, con il naso e il viso allungati in avanti a formare una specie di faccia da topo, piegò le mani intorno alla bocca e urlò:

«Coglione!» Diede una pacca sul petto del suo amico che scosse la testa, come appena risvegliatosi e corsero via prendendo la salita a destra della chiesa. 

(Tie-In #1) ”Proiettili, Amore e Compassione: Intervista a Michele Pichelli”

”Animal Man # 26 di Grant Morrison & Chas Truog”

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(Settembre 1990)

« Se ci pensi davvero, non esistono fumetti che siano nati dalla gioia. È ha senso così. I fumetti non sono un medium per persone felici.» Pichelli sorride soddisfatto e accavalla le gambe. I pantaloni di pelle nera scricchiolano come i guanti di un serial killer. Si passa una mano sul ciuffo bluastro, sbuffa, infila un dito sotto la lente degli occhiali da sole per massaggiarsi un occhio e si prende una pausa. Medita o forse dà il tempo alla sua frase di apertura di depositarsi così da lasciarmi un minimo margine per contraddirlo, ma decido di stare al gioco e aspetto. 

« Capitan America non è nato in tempi di pace. Nemmeno Superman. Che senso avrebbe scrivere o leggere di un eroe che indossa uno stemma che significa ‘’Speranza’’ se già ce l’hai? E non parliamo di Dylan Dog… »

« E da dove arrivano i tuoi fumetti? » gli chiedo.

Pichelli si piega in avanti. Si pinza il mento e appoggia il gomito sul ginocchio sobbalzante. La sua gamba balla talmente tanto che il resto dei clienti – manager, broker e consulenti dai capelli impomatati e abiti cuciti su misura che concludono o recedono contratti milionari – lo guardano di lato, probabilmente convinti  che sia uno di quei giovani tossici in crisi di astinenza. 

«È un fumetto, no?» alza la testa e mi mostra un sorriso furbo e amichevole allo stesso tempo. «Non viene da un posto felice.»

Michele Pichelli non si trova ancora al centro del mondo, ma sicuramente ha imboccato la strada giusta.

Sono bastati appena un paio di raccolte de La Stagione delle Piogge perché il suo nome cominciasse a comparire nelle riviste di settore (e non) nazionali e internazionali, condividendo stretti paragrafi con nomi che normalmente intimidirebbero chiunque decida di prendere una matita in mano: Sclavi, Pazienza, Tamburini, Moore, Pratt…

Il Santo, protagonista de La Stagione delle Piogge entrato di diritto tra le file di quei personaggi che, uscendo dall’universo circoscritto della vignetta, hanno scosso la cultura popolare infettando come un virus l’immaginazione collettiva delle persone: pensate a Tex, Dylan Dog, Batman, Superman, Flash, tutti personaggi che conoscete pur non avendone letto nemmeno una pagina. 

Avrete sicuramente visto la figura di questo prete-mercenario fare capolino tra gli scaffali delle edicole, stampata sui poster promozionali appesi ai muri delle librerie, invadere gli schermi dei vostri televisori o le conversazioni casuali con i vostri amici o colleghi.

La Stagione delle Piogge è ambientata in un 2020 alternativo, dove le macchine, invece di volare tra grattacieli di vetro dalle architetture complesse e cartelloni pubblicitari al neon, marciscono tra le nuvole di sabbia come le carcasse dei coyote nel deserto. La siccità ha trasformato il nostro pianeta in una palla di terra arida in attesa del primo colpo di vento per sgretolarsi e perdersi nel freddo e silenzioso vuoto dell’universo.  In questa terra martoriata, Il Santo è un ex-prete che, pur con la propria fede ancora intatta, decide di ritirarsi in una fattoria ai margini del deserto con la moglie Vera e le sue due bambine. Tutto sembra proseguire serenamente ma quando una banda di mercenari-mutanti in cerca di viveri e scorte d’acqua da poter razziare invade la fattoria, uccidendo la famiglia del prete nel percorso. L’uomo, ridotto in fin di vita, vaga nel deserto nel completo delirio, rinnegando il Dio che gli ha voltato le spalle dopo una vita intera passata a diffondere il suo verbo finché, una notte, da un cielo sereno e puntellato di stelle, un fulmine non si abbatte sull’uomo, attraversando il crocifisso che porta legato al collo. 

Il prete si risveglia in mezzo al deserto, a chilometri dalla fattoria, ma la sua vita non sarà più la stessa. Da qui in avanti, il suo corpo è ridotto a un mero strumento attraverso cui La Voce, un’entità sovrannaturale che può e non può essere una manifestazione divina, riporterà la giustizia tra gli uomini, guidandoli verso un evento totalizzante chiamata ‘’La Danza della Pioggia’’. 

Solo dopo che la terra verrà ripulita dalla Pioggia, il corpo del prete potrà riposare e la sua anima riunirsi con la sua famiglia. 

Dietro questa trama ripetuta e ripetuta fino al suo esaurimento, si nascondono tematiche che raramente ho visto affrontate nella letteratura fumettistica commerciale: cenni di filosofia orientale, determinismo, la fame capitalistica dell’occidente e le sue ripercussioni sull’ambiente e la società. Leggere La Stagione vuol dire intraprendere un viaggio tra le paranoie di Pynchon, l’esistenzialismo di Camus, il citazionismo e la poetica macabra alla Dylan Dog e la feroce critica alla società di Romero e Carpenter, il tutto rappresentato da un tratto di matita selvaggio e contorto alla Frank Miller atto a rappresentare l’umanità dietro una lente distorta, riducendo i corpi dei suoi personaggi in grovigli contorti di rabbia e disperazione. 

***

Ci incontriamo nella lussuosissima lobby di un hotel nel centro di Milano. Pichelli, – che per l’occasione ha deciso di indossare pantaloni di pelle nera, stivali da montagna e una sottile camicia leopardata,  – appare  visibilmente a disagio mescolato in mezzo a una fetta di umanità che non gli appartiene e che, probabilmente, non sarebbe molto impressionata dal conoscere la sua occupazione.

  Corre verso di me. Mi stringe la mano in fretta e furia e mi spinge verso l’angolo della hall accanto alla sala ristoro. 

«Non ho prenotato, ma questo per adesso lo sappiamo solo io e te» mi dice sottovoce. «Ho detto alla reception di telefonare a quelli della casa editrice per ‘’chiarire l’equivoco’’. Tra mezz’ora dovrebbero capire che io e te qui dentro non c’entriamo un cazzo. Spero che tu abbia le domanda già pronte.» 

Gli dico che possiamo fermarci in qualunque altro bar, anche su una panchina al parco, ma Pichelli mi rifila  pacca sulla schiena e si limita a dire: 

«La vita è troppo breve per non darsela a gambe.» 

Ci sediamo su due poltroncine di pelle marrone, separati da un tavolino tondo di legno su cui mancherebbero giusto due bicchieri scintillanti di costosissimo whiskey. 

« Potrai pensare che mi piace questa situazione, » dice, indicando la lobby con le dita. « Non questo posto, ma tutto quello che mi sta succedendo, in generale. Quando ho deciso di iniziare a scrivere ero terrorizzato, ma c’era di buono che nessuno si aspettava un bel niente da me. Potevo iniziare e abbandonare quando mi pareva, senza dire niente a nessuno e mantenere la dignità intatta. Adesso questa cosa non vale più. Vi ho lasciato la mia dignità come si lascia una caparra a un agenzia. Sono intrappola. Ma non tornerei indietro. Rifarei tutto da capo, compreso il patto col diavolo. »

Guardo l’orologio. Sono passati dieci minuti. Ce ne restano ancora venti prima che la direzione dell’hotel ci scopra. Decido di passare oltre e di non approfondire la questione del ‘’patto col diavolo’’, ma non prima che Pichelli mi faccia un’ultima richiesta:

« Per favore, quando scrivi l’articolo, potresti evitare di mettere quella stronzata dello ‘’scrittore-rockstar’’? Mi vien voglia di sfasciare il giradischi ogni volta che lo leggo… »

Allora, Michele, sicuramente non sono il primo a chiederti che cosa significa ‘’Il cielo sanguina con me’’, non è vero?

(Ride) No, e sono due anni che me lo chiedo pure io. Un sacco di gente ha interiorizzato quella frase e mi hanno dato la loro interpretazione sul cosa voglia dire. Immagino che a questo punto voglia dire un po’ tutto e niente. Ormai riguarda più i miei lettori che me, direttamente.

Una parte di me non lo vuole sapere cosa vuol dire per te o per qualcun altro. Mi sentirei un po’ derubato a sentirne un’altra versione. 

È la magia dello storytelling, no? Non esiste un’unica storia, ma centinaia di versioni rivisitate e aumentate della stessa storia, riscritte nella mente di ogni lettore. Non è più la mia storia, è la vostra e continuerà a vivere e a trasformarsi. 

Quindi possiamo dire che non c’è un messaggio o un tema preciso che vuoi veicolare con La Stagione delle Piogge. 

(Pichelli accavalla di nuovo le gambe e ci pensa, continuando a guardarsi attorno, pronto a fuggire alla prima vista del concierge) Se esiste…  sì, forse sì, ma come ti ho detto, quando esce da me è la luce bianca che attraversa il prisma, nient’altro. Assume tanti significati quanto sono le persone che lo leggono e accettano di fare il viaggio con me. Possiamo parlare della stessa cosa, ma l’esperienza che ho avuto io è diversa dalla tua e può essere che la storia risuoni molto di più con te che con me. Idealmente, ognuno porta con sé una versione diversa della storia e continuerà così, in circolo. Ed è perfetto. La Stagione delle Piogge vivrà in eterno, io no, ma avrò creato qualcosa di immortale. Quello che stiamo facendo io e i miei lettori è pura stregoneria. 

Vuoi dire come una specie di culto?

Non è una cosa che mi sono inventato io (Pichelli si imbarazza e comincia a grattarsi la tempia con l’indice). Le parole sono come incantesimi, giusto? Combinando in maniera corretta certe parole, evoco immagini e sensazioni riusciamo a creare intere vastità di pianeti e universi. La Stagione delle Piogge è un lungo incantesimo di massa che rievoca migliaia di universi paralleli, più o meno speculari tra loro. 

E in questa maniera, con decine di centinaia di versioni in giro per il mondo, non hai paura di perdere il controllo della storia, in qualche maniera? 

 La Stagione delle Piogge parla di perdersi, non di trovare la strada. Se la storia, una volta in mano ai miei lettori, sfugge al mio controllo, allora vuol dire che il mio lavoro ha centrato il segno che volevo centrare. 

Ci sono certe associazioni di genitori e giornalisti che non sarebbero troppo contenti a sentire un’uscita del genere, soprattutto per quello che riguarda la violenza ne La Stagione delle Piogge. Potrebbero vederlo come un lavarsene le mani da parte tua. 

Non c’è nessuna scusa. La violenza che racconto nella Stagione delle Piogge non è diversa da tante altre che puoi vedere al cinema o in altri fumetti. È grottesca, praticamente un cartone animato, ma quello che c’è dietro a ogni goccia di sangue è reale, qualcosa con cui dobbiamo convivere tutti i giorni, per quanto ci impegniamo a distogliere lo sguardo. Il lavoro di un autore non è di proteggere il lettore, ma di prenderlo per i capelli, torcergli il collo e spalancargli a forza le palpebre per costringerlo a guardare tutto quello che la cultura di massa ci nega. C’è qualcosa di sublime nel lurido. Qualcosa che vuole parlare con noi. 

Vero, la posizione di questi giornalisti e genitori è che le menti dei giovani sono più fertili, sensibili e suscettibili rispetto a quelle dei loro genitori e dei loro nonni. 

Più danneggiate, vorranno dire. Capisco dove vuoi arrivare, ho letto di certi ‘’episodi’’ dove hanno scoperto di certi ragazzi leggevano La Stagione delle Piogge dopo aver fatto… quello che hanno fatto. Nemmeno hanno mai detto di essersi ispirati al fumetto, hanno solo trovato i volumi nelle loro camerette e tutti hanno tratto la conclusione che volevano. Serve un capro espiatorio, lo capisco, ma la responsabilità non è mia, dovrebbe essere dei genitori. Immagino sia più facile puntare il dito contro qualcuno come me che stare accanto ai propri figli e ascoltare quello che hanno da dirgli. Non posso fare da papà per chiunque legga le mie storie, non è una responsabilità che mi posso prendere. I ragazzi sono sempre più alienati, isolati, depressi. La Stagione delle piogge è intrattenimento. Puro Escapismo. Mi piacerebbe dare loro un posto dove stare, dove potersi sentire al sicuro come mi sentivo io quando leggevo storie chiuso nella mia camera. Non dico ai miei lettori cosa dovrebbero fare, gli dico: ‘’ci sono passato anch’io, so come ti senti. È dura ma ne possiamo uscire’’. 

Il mondo non dovrebbe chiedersi: ‘’Perché questa violenza?’’, ma: ‘’Da dove viene questa violenza?’’

Ti identifichi con alcuni di questi ragazzi?

Certo. (A questo punto, Pichelli si fa più pensoso. Passano almeno un paio di minuti prima che ricominci a parlare). Ero un ragazzino  strano. Mi sentivo diverso. Mi sentivo solo. Se c’è una ragione che mi ha portato a scrivere la Stagione delle Piogge è quella di liberare quella violenza che maturava dentro di me e inserirla in un contesto dove potesse essere più produttiva e, spero, anche darle un senso. Vorrei che tutti potessero vederla così, che tra il sangue e i proiettili riescano a leggere un desiderio primitivo di amore e di compassione. A nessuno importa dell’amore in tempi di pace. Capisci quanto ti manca qualcosa solo quando la perdi, no?

***

A questo punto, veniamo beccati. Il concierge, una specie di incrocio tra Frankenstein e il Conte Dracula, si avvicina lievitando verso di noi. Pichelli mi fa segno di alzarci e scappiamo. 

Corriamo per il marciapiede come due che hanno appena scippato una vecchietta e Pichelli se la ride  sguaiato sotto gli sguardi disgustati della Milano che conta e che fattura. 

Decido di finire l’intervista e di fare una passeggiata con lui e parlare del più e del meno come vecchi amici. Parliamo di cani e di cibi spazzatura, di musica punk e di cantautori italiani. Sembra avere un’opinione su ogni cosa, anche se è sempre espressa timidamente, quasi in un sussurro, come se ogni parola avesse il peso di una prova schiacciante che prima o poi verrà usata contro di lui. Mi prometto di non riportare niente di quello che ci siamo detti usciti dall’hotel, a parte per una sola domanda che gli rivolgo prima di salutarci. 

Se un giorno incontrassi uno di questi ragazzi tristi e violenti di cui parlano i giornali, uno dei tuoi ammiratori, che cosa gli diresti?

(Pichelli ci riflette di nuovo. Si muove leggero, con gli occhi spalancati come in trance). Gli direi che andrà tutto bene.

# 0 – ”Canta il corpo elettrico”

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– San Infantino. 1994 –

Il ragazzo correva lasciandosi il paese alle spalle, senza davvero sapere cosa ci sarebbe stato da perdere o da guadagnare.  Saperlo o meno non avrebbe fatto una gran differenza in ogni caso. Lui era ‘’quello che correva via’’ e, se si vuole sopravvivere a San Infantino, ognuno deve seguire la propria legge di natura. 

Correre, non fuggire: era lì che stava la differenza, quel pomeriggio. Non fuggiva come al solito da quel giorno in cui ‘’prima o poi, lo avrebbero ucciso per davvero’’ o dal ringhio assonnato delle catene arrugginite e dei raggi delle biciclette che lo inseguivano per le viette della campagna. Correva perché, finalmente, la Voce lo aveva chiamato e aveva già perso abbastanza tempo a farsi picchiare dai ragazzi più grandi al campetto del prete. 

Correva nonostante sentisse la carne gonfiarsi intorno all’orbita, pompando minuscole fitte di dolore nella carne. Ogni volta che provava ad aprire la bocca per inghiottire più aria, sentiva la mascella bloccarsi dopo un sonoro schiocco. Era abbastanza certo che almeno una costola si fosse spezzata, probabilmente perforandogli un polmone, ma ancora non poteva fermarsi, non prima del tramonto. 

La strada si aprì sulla campagna e i campi scintillanti di verde e luce cominciarono a scorrergli a lato, ma una parte di lui era ancora stesa in posizione fetale al centro del campo da basket della parrocchia, circondato dai ‘’ragazzi più grandi’’ che conosceva come avrebbe potuto conoscere un amico, se mai ne avesse avuto uno. Per un buon quarto d’ora, accettò ogni colpo e ogni insulto, silenzioso e passivo come gli aveva insegnato papà, finché la  vista del tramonto non lo fece scattare in piedi all’improvviso, come se un calcio avesse inavvertitamente azionato qualche meccanismo di auto-conservazione sconosciuto. 

I cigolii delle biciclette cominciarono pian piano a dissolversi nell’aria, poi spazzati via definitivamente dallo stridio dei freni delle biciclette. Solo lì, quando l’ultimo insulto venne assorbito e dimenticato dalla vastità dei campi, il ragazzo si permise una pausa. Il fiato usciva caldo dalla bocca come il ruggito roco e stanco di una bestia in gabbia. Una fitta gli attraversò il petto, bloccandogli il respiro. Tossì nelle mani chiuse e coppa e spiò all’interno, prima titubante, poi sollevato: niente sangue, nessuna polmone perforato. Solo il famigliare sapore ferroso di sangue che gli riempiva la bocca come dopo ogni pestaggio. 

Alla sua destra, l’occhio rosso del sole lo guardava indifferente, scendendo giù dietro le colline come un uovo spiaccicato che colava contro un muro. Intorno all’aura di luce rosa e oro , banchi di nubi grigie cominciavano ad ammassarsi, strisciando lungo la superficie livida del cielo abbandonata dal calore  dalla luce. Lo sguardo del ragazzo si perse su quella striscia rossastra sopra le colline, rosso e pulsante come uno squarcio nella carne.

Il cielo sanguina, pensò, recitando un salmo preso dal volume 1, numero 6 della Stagione delle Piogge, le sue Sacre Scritture. Il cielo sanguina come me e te. 

Il ragazzo sorrise, contraendo il viso in una smorfia ridicola di fatica ed eccitazione. Doveva solo correre qualche altro metro ancora. 

Riprese la sua corsa. Il dolore all’occhio, ormai gonfio come un’arancia, il bruciore ai muscoli, il dolore intorno alle ginocchia e i punti rossi e blu che gli coprivano la vista divennero solo un fastidio di fondo come l’aria gelida e carica di pioggia che cominciava a penetrargli nelle ossa. 

Finalmente, dopo un altro chilometro, dietro la gobba dell’ultima salita spuntò ‘’la casa di papà’’: un cubo di cemento rosso e bianco che si ergeva in mezzo all’erba alta come una ciste del suolo. Senza fermarsi, superò con un salto il recinto di metallo e proseguì per il sentierino di ghiaia nascosta dall’erba incolta. Non si fermò nemmeno per salutare la cuccia (sempre rossa e bianca, come una copia in miniatura della casa) di Krypto. Il ragazzo salì gli scalini a due alla volta e quasi sfondò la porta per la fretta di entrare. 

Papà non era ancora tornato. Nemmeno serviva chiamarlo o cercarlo, lo sapeva e basta: qualcosa mancava nell’aria, come lasciando una sagoma vuota nell’aria salubre di umidità e polvere. 

Girò subito a destra, verso la sala. Con tre balzi, scavalcò il tavolino, saltò sul divano di pelle verde, si arrampicò con la punta di piedi sulla testata e si aggrappò al gigantesco crocifisso di legno appeso al muro, grande quanto il suo tronco. Il gigantesco Gesù d’argento lo guardava sofferente, supplicandolo di non portarlo via con lui. 

Con il trofeo tra le braccia, saltò dal divano, atterrando, rischiando quasi di storcersi una caviglia e corse via. Ripercorse al contrario il sentiero di ghiaia, saltò di nuovo la recinzione e proseguì per la stradina, verso il punto d’incontro che la Voce aveva deciso per loro. 

Il cielo aveva quasi smesso di sanguinare. 

Lo squarcio si era rimarginato in una ferita sottile che separava il blu livido dalle cima colline ancora sporcate dalla luce rossastra del tramonto. Le nuvole avevano cominciato a farsi più nere e dense, tanto grandi da potere vedere i primi lampi attraversarle come grinze sulla pelle.  

Arrivò al laghetto che non c’era più luce né sangue nel cielo. L’elettricità che gonfiava l’aria gli fece accapponare la pelle delle braccia stanche e formicolanti per il peso della croce. Rapidi flash di lampi bianchi cancellavano il mondo attorno al ragazzo, lasciando soltanto un frammento di pace bianco puro inafferrabile che cancellava il mondo per poi riportarglielo così com’era, trascinando con sé lo strascico di un rombo sommesso. 

Il ragazzo prese fiato un’ultima volta prima di corre verso la recinzione di legno e ferro che circonda il piccolo laghetto. Le prima gocce di pioggia avevano già preso a cadere. Non c’era tempo per i rituali né per le epifanie. Reggendo il crocifisso prima su un braccio e poi sull’altro, cominciò a spogliarsi in corsa, lasciandosi dietro una scia di vestiti abbandonati come un percorso di briciole. Senza rallentare, lanciò prima la croce oltre la rete, saltò la recinzione con un solo balzo e atterrò coi piedi nudi sul suolo morbido e viscido. 

Ai bordi del lago, con il crocifisso stretto tra le braccia, rimase a fissare imbambolato il suo riflesso distorto sulla superficie scura dell’acqua: un pallido fantasma con il viso lungo e smunto, sfigurato da un brutto occhio nero, i capelli biondi e sottili come le setole di un vecchio pettine e le ossa coperte da un sudario di pelle pallida e lentigginosa. Si ordinò di saltare, – con la sua di voce, non l’altra che ancora lo aspettava, –  ma le sue gambe non finsero il minimo spasmo; giusto un’impercettibile tremolio delle ginocchia sporgenti. Le lacrime cominciarono a scaldargli il volto sotto lo scroscio dell’acqua gelida. Strinse i denti, sforzandosi di liberare un urlo dalla gola strozzata dal panico, ma ne uscirono solo singulti striduli e rochi. 

Non era pronto, non ancora, ma a nessun eroe è mai stato chiesto di esserlo. Non ci sarebbe stata una morte per lui, ne era sicuro; la Voce glielo aveva detto e le ‘’Nuove Scritture’’ lo confermavano. Sarebbe morta solo una parte di lui, quella che ‘’un giorno avrebbero ammazzato per davvero’’, quella che la sera restava raggomitolata sul letto con il sangue delle ferite fresche che sporcava le lenzuola e le federe dei cuscini. 

Il nodo alla gola si sciolse. Il ragazzo si asciugò la faccia e la smorfia di pianto sul viso si trasformò in un’espressione di vuota concentrazione. I suoi occhi oltrepassarono il suo riflesso e si fissarono di nuovo sul fondo del lago e realizzò che tra uscirne vivi e sprofondare nel buio, all’alba del giorno dopo non avrebbe fatto alcuna differenza. 

I muscoli delle gambe si rilassarono. I piedi si staccarono dal fango e, prima di potersene accorgere, il vuoto si gonfiò sotto di lui fino al gelido schianto con l’acqua. 

Sprofondò nell’abisso, abbracciato stretto al crocifisso, e ogni cosa sembrò allontanarsi da lui, non solo le punte degli alberi o i lampi nel cielo: il dolore pulsante intorno all’occhio e alla mascella, la rabbia, la paura e l’umiliazione svanirono via. Non avrebbe avuto senso tornare. L’attrito dell’acqua l’avrebbe protetto, avrebbe rallentato ogni pugno e gli insulti sarebbero arrivati alle sue orecchie solo come distorsioni ovattate e distorte. Accarezzò l’idea di non riemergere più, di restare nell’abisso, finché un vuoto più grande non lo avrebbe accolto a sé. Ma la Voce tornò a chiamarlo dal nero e blu speculare a quello dove era immerso. Il ragazzo aprì gli occhi, si aggrappò al crocifisso come a un’ancora e risalì verso la superficie, illuminato a intermittenza dai lampi nel cielo. 

La testa riemerse. La pelle non riusciva a distinguere il gelo nell’aria da quello dell’acqua, come se fosse immerso in un’unica sostanza. Rilassò i muscoli e lasciò risalire il resto del corpo, sdraiandosi sulla superficie con il crocifisso stretto al petto.

Rimase ad aspettare impaziente, accarezzando la testa del Gesù crocifisso con il polpastrello del pollice. I lampi continuano a saltare da nuvola a nuvola, tessendo un unico, lungo ruggito che in quel momento suonava come una risata crudele che prendeva gioco del ragazzo e della sua attesa sotto la pioggia. 

Il tempo passava, senza nemmeno il sussurro di un presagio finché la pioggia si arrestò di colpo, lasciando soltanto il desolante fruscio dell’erba e il gracidio delle rane. Il ragazzo rimase immobile, finché una nuova umiliazione gli strinse lo stomaco e la gola nella realizzazione che  il cielo non aveva niente da dirgli, soltanto il silenzio. 

La Voce era solo un desiderio cieco, una speranza cacciata fino in fondo alla gola più violentemente di quanto avrebbe potuto fare uno dei ragazzi più grandi al campetto. Tornare alla vecchia vita non era un’opzione, non dopo tutte le speranze consumate. Giorni, settimane e mesi di preparativi, di analisi del meteo e del vento, calcolando tutto il necessario per preparare il corpo e lo spirito al suo arrivo. 

Perso nel suo dolore, il ragazzo non si accorse dell’elettricità che riempiva pian piano l’aria, raccogliendosi fino a creare una specie di massa invisibile che piegava i fili d’erba, le foglie e i rametti dei cespugli sotto la sua assenza di peso.

Il ragazzo gonfiò il petto, pronto a lasciarsi andare a un altro pianto, quando il fulmine arrivò, inchiodandolo alla superficie dell’acqua. Il crocifisso esplose in un boato di legno e ferro a buon mercato, ma non sentì il dolore delle schegge che si conficcavano nella pelle né del Gesù incandescente che si liquefaceva, lasciando il suo marchio nella carne. 

Un ronzio assordante di vespe meccaniche gli riempì le orecchie, mentre l’elettricità lo attraversava rapidamente, infilandosi nella carne. Centinaia di lamette incandescenti sembravano esplodergli dall’interno, conficcandosi nei polmoni, dietro gli occhi, nella gola e nei testicoli, ma quello stesso dolore lo teneva immobile, soffocando ogni tentativo di protesta o di fuga. La Voce aveva bisogno di tempo per ambientarsi nella sua nuova casa, doveva solo essere coraggioso e resistere. Non esisteva una nascita che non fosse dolorosa. 

Il bagliore sparì come riapparve, riportandolo tra le braccia tremanti di suo papà. L’uomo sollevò la testa dal petto del ragazzo e lo guardò incredulo con gli occhi grandi, umidi e stanchi, scavati nel viso lungo e pallido.  Sopra di loro il cielo, sereno e  puntellato di stelle, riprendeva fiato dopo la pioggia. La luna, che spuntava dietro la testa rasata del padre come da dietro una collina, illuminava tutto di una luce bluastra, come un sole scarico. 

Erano solo lui e il suo papà, inginocchiati nell’erba umida con la città che si estendeva viva poco sotto di loro. 

Il padre accarezzò il viso del figlio con cautela, sfiorando a malapena la guancia con il dorso della mano ancora insozzata di calce secca. Il ragazzo vedeva le labbra dell’uomo muoversi, ma dalla sua bocca usciva solo un fischio costante che lo attraversa da orecchio a orecchio. Poteva sentire il peso insopportabile della pelle sul corpo ancora intorpidito dalla scarica, ma non la sensazione dell’aria fresca o della pelle ruvida di papà. Cominciò a sentirsi sepolto dentro il suo stesso corpo, ma prima che sopraggiungesse il panico, la Voce tornò a rassicurarlo con le sue parole che schioccavano  nelle orecchie una dopo l’altra come rami secchi nel fango. 

Le labbra di papà tornarono a muoversi, e questa volta dalla sua bocca uscì la Voce, fuori sincrono, come un film doppiato male. 

Gli disse di rilassarsi, di muovere prima l’alluce e poi l’indice della mano. Era un’esperta in queste genere di cose, diceva. Ci era già passata, ma certo non serviva spiegarglielo perché lui, Marzio, questa cosa la sapeva già bene.

Marzio sbatté le palpebre e vide le labbra del padre tendersi in un sorriso stentato. Il formicolio svanì e il corpo riprese sensibilità, appena in tempo per sentire le mani di papà afferrargli la nuca e spingergli la testa contro il suo petto, riempiendogli il naso con l’odore di cantiere, sigarette e vino bianco. Marzio ritrovò la parola e mugolò qualcosa, soffocato dalla maglietta da lavoro di papà. 

«Cosa?» chiese il padre, staccandolo da lui e afferrandogli il viso. 

«È arrivata?» chiese Marzio, guardandosi attorno, come ritrovandosi in un posto nuovo e lontano.

L’uomo sciolse le braccia intorno alle spalle di Marzio e si allontanò. 

«Cosa è arrivata, Marzio?»

«La Danza della Pioggia. È già successa? Sono… sono stato io?» 

L’uomo si guardò intorno spaesato. La gioia di aver ritrovato il figlio si dissolse, lasciando soltanto un’espressione di debole e rassegnata confusione.

«Io… io non lo so» gli rispose, mortificato. 

Marzio si aggrappò alle spalle di papà e si guardò intorno, girando la testa disperato alla ricerca dei  segni di distruzione e cambiamento. Il parchetto era ancora quello. Niente sembrava averlo toccato a parte una pioggia innocua e non quella che s’immaginava. 

Le labbra di Marzio si torsero disperate. 

«Ma ho fatto…. Ho fatto tutto… Ho aspettato il fulmine, avevo la croce… »

«Torniamo a casa» disse il padre avvolgendolo nel bomber verde del lavoro.  

Il padre prese il corpo infreddolito del figlio tra le braccia e si avviarono verso il camioncino rosso della ditta, ancora in moto ai margini del parco. 

Marzio sollevò la testa oltre le spalle del padre a guardare le minuscole luci che illuminavano le case e che strisciavano lungo le strade. La vita andava avanti indisturbata, come volendogli fare un affronto e nel loro tremolio, al ritmo di  quello delle stelle sopra di loro, sembravano agitarsi in una nuova danza di scherno per aver abboccato, per l’ennesima volta, a un’altra promessa non mantenuta.